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Danno tanatologico

IL DANNO TANATOLOGICO

Le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione confermano la sentenza della Corte d’Appello di Torino che ha negato la risarcibilità del danno da perdita della vita.

In conseguenza di un incidente stradale, nel quale due automobili si erano scontrate frontalmente, uno dei conducenti, che guidava a velocità eccessiva e non aveva indossato la cintura di sicurezza, aveva trovato la morte per effetto della guida dell’altro conducente, il quale aveva effettuato una svolta a sinistra per immettersi in un’area privata, violando l’obbligo di dare precedenza.

La Corte d’Appello di Torino, riformando parzialmente la decisione del Giudice del Tribunale di Cuneo, aveva rideterminato la misura del concorso di colpa dei due conducenti, ma confermato la sentenza di primo grado nella parte in cui essa aveva negato, agli eredi del conducente deceduto, il risarcimento del danno patito da costui per la perdita della vita.

Le Sezioni Unite della Cassazione, chiamate a pronunciarsi sul contrasto giurisprudenziale verificatosi dopo che la III Sezione civile della Suprema Corte, con la sentenza n° 1361/2014, aveva affermato, discostandosi da un orientamento consolidato fin dal 1925, che il risarcimento del danno da perdita della vita ha funzione compensativa e il relativo credito è trasmissibile agli eredi, hanno  riaffermato l’originario indirizzo giurisprudenziale e ne hanno escluso non solo la trasmissibilità ereditaria, ma la  stessa configurabilità.

La sentenza n° 15350 del 22 luglio 2015 delle Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione, merita di essere segnalata per la chiarezza e l’approfondimento delle ragioni sulle quali essa si basa.

In primo luogo, la pronuncia evidenzia che l’attitudine di un essere umano ad essere titolare di diritti e, dunque, ad acquistarli, che consiste nella capacità giuridica, si acquista con la nascita e cessa con la morte. Se, in determinati casi, è possibile riconoscere diritti a favore di soggetti non ancora nati ma tuttavia concepiti, non è invece possibile riconoscere diritti a defunti, mancando del tutto il soggetto che dovrebbe esserne titolare.

Quando la morte è causata da un comportamento illecito altrui, come nel caso di incidente stradale con colpa, il danno che ne deriva è rappresentato dalla perdita del bene “vita” e non dalla perdita del bene “salute”, il quale può essere leso anche nella massima estensione, ma presuppone pur sempre che il soggetto che patisca le conseguenze di tale lesione rimanga vivo.

A differenza del bene “salute”, il bene “vita” è fruibile solo in natura da parte del titolare ed è insuscettibile di essere reintegrato “per equivalente” attraverso una valutazione di natura economica, a differenza delle lesioni fisiche o psichiche nelle quali si concreta il danno alla salute.

È ben vero che la morte determina una perdita, ma poiché essa ha ad oggetto la vita, con la morte si perde anche la capacità giuridica, cioè l’attitudine ad essere titolari di diritti, compreso il credito risarcitorio per tale fatto dannoso ingiusto.

A giudizio della Suprema Corte, tale orientamento non priva di ristoro i congiunti del deceduto, i quali possono richiedere al responsabile del fatto ingiusto, per diritto proprio, il risarcimento del danno morale per la perdita del rapporto parentale, così come il risarcimento per le perdite di natura patrimoniale che la morte del deceduto abbia loro provocato, ad esempio in termini di assistenza e mantenimento.

Un opposto indirizzo, sempre secondo il Giudice della legittimità, riconoscendo una tutela risarcitoria direttamente anche al defunto, in realtà equivarrebbe solo a far conseguire più denaro agli eredi e, ove questi non vi fossero, direttamente allo Stato, con effetti che difficilmente potrebbero legittimamente inquadrarsi nell’ambito della funzione che l’ordinamento assegna al risarcimento del danno.

Quest’ultimo, infatti, ha natura reintegratoria e riparatoria (oltre che consolatoria), mentre lo scopo sanzionatorio e di deterrenza non può che essere affidato alla tutela penale.

Del tutto distinto dal danno tanatologico resta il cosiddetto danno catastrofale, costituito dalla sofferenza di natura morale che prova il soggetto che, ricevuta per il fatto illecito altrui, una lesione all’integrità fisica così grave da condurre irrimediabilmente alla morte, resta consapevole della gravità delle sue condizioni ed attende, lucidamente e con terrore, l’ineluttabile avvicinarsi della fine.

Tale sofferenza costituisce danno morale ed è fonte del diritto al suo risarcimento, che entra a far parte del patrimonio del soggetto morente mentre egli è ancora in vita e proprio perché è ancora in vita ed ha ancora la capacità giuridica, così che, dopo la morte, esso si trasmette agli eredi.

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